Il principio di offensività e i reati di pericolo

di Emanuele Procopio
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)

Il nostro sistema penale è caratterizzato del c.d. principio di offensività del reato che
subordina la sanzione penale all’offesa di un bene giuridico tanto nella forma della lesione,
inteso come nocumento effettivo, quanto in quella dell’esposizione a pericolo, concepita in
termini di nocumento potenziale. E, proprio, a tal ultimo riguardo il legislatore ha
positivizzato delle figure giuridiche che assurgono a delle vere e proprie forme di tutela
giuridica anticipata. A tale macrocosmo vanno ricondotte diverse categorie di reati
relativamente alle quali sorge prima facie il sospetto di un’eccessiva prodromicità della
reazione penale rispetto all’effettiva lesione o messa in pericolo del bene protetto. Tale
sospetto può derivare innanzitutto da una evidente, e forse eccessiva, anticipazione tempora-
le della tutela. Questo è quanto accade con riferimento ai reati di pericolo e a quelli di
possesso. Riguardo ai reati a dolo specifico e a quelli di attentato, invece, il sospetto di una
violazione del principio di offensività deriva dal fatto che il relativo paradigma normativo
palesa una pregnante valorizzazione della volontà dell’agente rispetto alla reale offesa.
Analoga funzione di anticipazione della tutela è rinvenibile nell’istituto del delitto tentato di
cui all’art. 56 c.p., la cui rilevanza penale è connessa al compimento di atti idonei e diretti in
modo non equivoco a commettere un delitto del quale, tuttavia, non risultano integrati tutti
gli elementi costitutivi. Al fine di vagliare la compatibilità di tali tecniche di tutela
anticipata con i principi di legalità di cui agli artt. 13 e 25 Cost. è necessario carpirne la ratio
e verificare se la relativa disciplina ecceda i limiti di un equo bilanciamento tra l’esigenza di
apprestare tutela a beni giuridicamente rilevanti e quella di non comprime-re
eccessivamente i diritti di libertà. Il principio di offen-sività, recepito dal legislatore sin
dagli albori della legi-slazione codicistica, impone di ritenere che il diritto pena-le trovi
legittimazione solo laddove un comportamento materiale si estrinsechi in una più o meno
intensa com-pressione di beni giuridicamente rilevanti. Tanto emerge dalla conformazione
del nostro come di un “diritto penale del fatto”; di un diritto penale, cioè, che esige che il
pro-posito criminoso si sostanzi in un comportamento mate-riale idoneo a ledere o,
quantomeno, a mettere in pericolo il bene protetto. In quest’ottica sono state dunque
respinte tutte le teorie soggettive del reato che, muovendo da un’accentuazione del
momento soggettivo dell’illecito, concentravano il fondamento della punibilità nella perico-
losità sociale del soggetto nonché nella sua volontà cri-minosa. L’esigenza di ancorare la

risposta lato senso pu-nitiva dell’ordinamento a comportamenti effettivamente e
considerevolmente lesivi dell’altrui sfera giuridica, a ben vedere, non ha costituito un
fenomeno strettamente con-finato all’ambito penalistico, ma ha plasmato anche la disciplina
civilistica del danno risarcibile. Questa esigen-za ha, infatti, condotto ad una rivalutazione
del concetto di danno risarcibile. Tale non è il c.d. danno-evento, inte-so quale mera
sussistenza dell’evento lesivo, ma solo il c.d. danno-conseguenza, ossia quel danno che
possa con-siderarsi normale conseguenza di un determinato compor-tamento alla stregua del
principio di causalità adeguata. Proprio sulla base di tali premesse, prevalente dottrina e
giurisprudenza ritengono che il principio di offensività, lungi dal contrapporsi a quello di
tipicità, esplichi già la sua funzione in sede di tipizzazione del fatto penalmente rilevante.
Donde, un fatto che pur presenti gli elementi costitutivi di una determinata fattispecie
delittuosa si deve considerare tipico solo in apparenza laddove concreta-mente inidoneo a
ledere o mettere in pericolo il bene giu-ridico che la norma si prefigge di tutelare. Tutto ciò
trova conferma in innumerevoli interventi della Corte Costitu-zionale e della Corte di
Cassazione volti a relegare nel-l’alveo del penalmente irrilevante tutte quelle condotte che,
per l’esiguità del danno arrecato, si dimostrino con-cretamente inoffensive. E, proprio sulla
scorta della com-patibilità del principio di offensività con le varie forme di tutela anticipata
è stata tipicizzata la categoria dei c.d. reati di pericolo. Il riferimento è innanzitutto ai reati
di pericolo concreto i quali, sebbene postulino come evento giuridico la semplice messa in
pericolo del bene e non la sua lesione, presuppongono un accertamento concreto di quella
pericolosità ad opera del giudice. Passando in ras-segna alcune delle principali ipotesi
delittuose di pericolo concreto, come il delitto di strage o quello di incendio, è evidente
come il pericolo assurge ad elemento costitutivo della fattispecie e, come tale, deve essere in
concreto pro-vato. Al fine di tale accertamento, la dottrina e la giuri-sprudenza prevalenti
affermano doversi condurre – ana-logamente a quanto avviene nell’ambito del tentativo –
un giudizio a base parziale; vale a dire, che tenga conto delle sole circostanze effettivamente
cono-sciute dall’agente nonché di quelle conosci-bili alla stregua di un osservatore di media
diligenza. Invece, nei reati di pericolo astrat-to la pericolosità viene prevista dal legislato-re
in via generale e astratta sulla base di re-gole d’esperienza. Tuttavia determinate fatti-specie
consentono, o per via dell’utilizzo di termini dalla forte carica semantica o per via di una
interpretazione re-strittiva pro reo, di indivi-duare un elemento concreto di pericolo quale
requisito della fattispecie. Un’altra categoria di reati che desta il sospetto di una violazio-ne
del principio di offensi-vità è quella dei reati a dolo specifico. Tale tipologia di dolo consiste
in una finali-tà, ulteriore alla mera commissione dell’illecito, che l’agente deve prendere di
mira ma che non è ne-cessario si realizzi concre-tamente affinché il reato si configuri. Si
tratta, a ben vedere, di un elemento co-stitutivo dell’illecito idoneo ad ancorare il punto ne-
vralgico della punibilità alla volontà di offendere, più che alla reale offesa. In quest’ambito
risulta, però problematica l’ipotesi in cui il dolo specifico assolve ad una funzione
squisitamente anticipa-toria. In tal caso la punibilità a titolo di reato consumato è ancorata,
non alla effettiva realizzazione dell’offesa, ma ad un momento prodromico caratterizzato
dall’aver agito con una determinata finalità. Secondo prevalente dottrina e giurisprudenza, a
rendere compatibili tali fattispecie con il principio di offensività sopperisce una loro
interpreta-zione in chiave oggettiva, che tenga conto dell’effettiva idoneità della condotta a
conseguire un determinato risul-tato. Ciò si afferma posto che in merito ai c.d. reati di pe-
ricolo presunto, equiparati da autorevole parte della dot-trina ai reati di pericolo astratto è il
legislatore, a monte, ad incriminare una condotta che ritiene pericolosa, sicché al giudice
che abbia già accertato gli altri elementi a fon-damento della responsabilità penale non

spetterebbe che il compito di accertare la condotta, dopodiché dovrebbe condannare sic et
simpliciter l’imputato, senza la necessi-tà di verificare in concreto il pericolo per il bene
giuridico (rectius, interesse giuridico) tutelato dalla disposizione incriminatrice. Ma non è
così! E, infatti, perché ciò si verifichi la condotta dell’agente deve essere dotata di un
minimo di offensività altrimenti il reato, comunque, non si perfeziona secondo quanto
previsto dal-l’art. 49, comma 2, c.p. In buona sostanza, nei reati di pericolo presunto il
legislatore codifica norme di esperienza incriminando condotte che ordinariamente pongono
in pe-ricolo un interesse giuridico: tuttavia, po-trebbe verificarsi la situazione in cui la con-
dotta, pur essendo conforme al dato letterale della disposizione incriminatrice, non ponga
concretamente in pericolo l’interesse giuridico. In altre parole, potrebbe veri-ficarsi uno
scarto tra l’ap-parente conformità alla norma incriminatrice e l’of-fesa in concreto, requisito
necessario affinché si possa parlare a ragione di fatto tipico. Stando così le cose, la
sussistenza dei reati di pericolo presunto nel no-stro sistema costituzionale è stato posto
fortemente in discussione: infatti, even-tuali fattispecie incrimina-trici che vincolassero il
giudice ad una sentenza di condanna nonostante la concreta carenza di offesa, vale a dire
basate su un modello di presunzione assoluta, che limitassero l’apprezzamento del giudice
non ammettendo prova contraria, violerebbero la presunzione di non colpevolezza, il
principio di personalità della re-sponsabilità penale, il diritto alla prova e il principio di
offensività. Per questo motivo, l’unico modo per evitare di dichiarare incostituzionali tutte
queste fattispecie, sen-za però convertire i reati di pericolo presunto in reati di pericolo
concreto e rinunciare in questo modo alle esi-genze politiche che ispirano un tal genere di
anticipazione della tutela penale, sembra quello di considerare le pre-sunzioni di pericolo
come presunzioni relative, lasciando spazio, quindi, per una prova contraria: ben potrebbe il
giudice condannare sulla base di una mera conformità della condotta con la lettera della
disposizione incrimina-trice, a patto che dalle risultanze processuali non emerga-no
elementi tali da escludere l’offensività della condotta, e, dunque, la responsabilità
dell’agente. In particolare, l’art.190 c.p.p. prevede il “diritto alla prova” in capo alle parti;
l’art.187 c.p.p. precisa che sono “oggetto di prova i fatti che si riferiscono (…) alla
punibilità”. Posto che l’art. 49, 2° comma, c.p. disciplina la non punibilità in caso di
inidoneità dell’azione (o inesistenza dell’oggetto), è possibile concludere che l’imputato
abbia il diritto di produrre in dibattimento prove che dimostrino la non pu-nibilità dovuta
alla inidoneità dell’azione (o all’inesisten-za dell’oggetto), naturalmente in accordo con le
norme che disciplinano l’ammissione e la valutazione delle stes-se. Da parte di alcuno si è
ritenuto che il modello della presunzione relativa di pericolo rappresenti un’inversione
dell’onere della prova: infatti, non spetterebbe all’accusa provare la pericolosità della
condotta, bensì, alla difesa, il compito di dimostrare la concreta mancanza di pericolo. In
altre parole, nei reati di pericolo presunto non sarebbe la pericolosità della condotta a
fondare la responsabilità del soggetto agente, bensì la concreta assenza di pericolo ad
escluderla: ai sensi dell’art. 49, 2° comma, c.p. in tema di “reato impossibile”, l’imputato
sarebbe assolto per “inidoneità dell’azione” perché “il fatto non sussiste” (art. 530 c.p.p.).
Anche in questo caso, tuttavia, i reati basati sul modello della presunzione relativa di
pericolo non sembrano necessariamente in contrasto con i principi co-stituzionali, e ciò è
confermato dal quantum probatorio richiesto con riferimento alla concreta assenza di perico-
lo: ancora una volta, alla luce della presunzione di non colpevolezza e del principio del
ragionevole dubbio, è preferibile ritenere sufficiente un ragionevole dubbio sul-la concreta
offesa all’interesse giuridico per assolvere l’imputato. Tirando le somme, a patto che abbia
accertato gli altri elementi a fondamento della responsabilità pena-le, il giudice riconoscerà l’offensività della condotta, a meno che dalle risultanze processuali non risultino ele-menti
che insinuino almeno un ragionevole dubbio sulla concreta messa in pericolo dell’interesse
giuridico protetto.