di Vincenzo Belcastro
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)
Con la legge del 14 luglio 2017 n. 110 è stato introdotto, all’interno del nostro codice
penale, all’art. 613-bis, il delitto di tortura. Il Legislatore ha strutturato una fattispecie di
reato complesso sulla base di una variegata tipizzazione di condotte, poste anche in
alternativa fra loro, configurando una natura polimorfa del delitto, tale da poter ampliare il
più possibile il raggio di azione e di tutela da parte dello Sta-to, come imposto anche dagli
obblighi derivanti dal diritto internazionale. L’art. 613-bis è una disposizione a più norme
incriminatrici, in quanto in seno racchiude due fattispecie auto-nome di reato: la tortura
impropria, definita anche come privata, comune od orizzontale, prevista al primo comma e
punita con la reclusione da quattro a dieci anni; la tortura propria, nonché cosiddetta di
Stato, verticale o pubblica, sanzionata con la reclusione da cinque a dodici anni. È un reato
plurioffensivo perché la norma tutela come beni giuridici l’integrità fisi-ca e psichica
nonché la libertà personale e di autodeterminazione dell’individuo. Tuttavia, la tutela
normativa ha radici più profonde. La tortura non è altro che l’inflizione brutale di sofferenze
corporali, attraverso gravi e prolungati patimenti fisici e morali nei confronti della vittima,
cosicché la sua particolarità è il totale assoggettamento della persona la quale, in balia
dell’arbitrio altrui, viene trasformata da essere “soggetto umano” a “res” (oggetto) sul quale
ricade l’accanimento.
Se ne deduce che la sofferenza corporale, fisica e/o psichica, è solo una componente del-la
fattispecie incriminatrice, ma il contenuto preciso dell’offesa penalmente rilevante sta nella
lesione della “dignità umana”, ossia l’arbitraria negazione dei suoi diritti inviolabili. Il reato
è a forma vincolata e gli elementi costitutivi sono la violenza, la minaccia ovvero l’agire con
crudeltà. La violenza può essere “propria”, da intendersi come l’impiego di energia fisica
sulle persone o sulle cose, esercitata direttamente o per mezzo di uno strumento;
“impropria”, quando si utilizza un qualsiasi mezzo ido-neo, esclusa la minaccia, a coartare
la volontà del soggetto passivo, annullandone la capacità di azione o determinazione. La
minaccia è la prospettazione di un male in-giusto e notevole, mentre la crudeltà è quella
condotta che si traduce in un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, che
determina nella vittima sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore
particolarmente riprovevole dell’autore del fatto. La nozione “chiunque” rende la tortura
orizzontale un reato comune, mentre, come si vedrà in seguito, quella verticale è una
fattispecie di reato proprio. Strutturato necessariamente come reato di evento, ai fini
dell’integrazione, il soggetto agente, mediante le predette condotte, deve cagionare acute
sofferenze fisiche o, sempre in alternativa, un verificabile trauma psichico, ai danni del
soggetto passivo. Ai fini della ricorrenza delle acute sofferenze fisiche, non è necessario che
la vittima abbia subito lesioni. Nella no-zione trauma psichico vi rientrano anche quelle
circostanze a carattere transeunte, ma deve essere “verificabile”. La verificabilità può essere
accertata non solo attraverso una perizia o altro strumento tecnico, ma anche, al pari del
“perdurante e grave stato d’ansia” del delitto di atti persecutori, attraverso elementi
sintomatici del turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della persona offesa,
ovvero dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed
anche da quest’ultimo, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto
il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui la
violenza è stata consumata. La persona offesa può essere privata della libertà persona-le, in
questo caso il reato è anche permanente, data l’assimilabilità con delitto di cui all’art. 605
c.p., sequestro di persona. Sempre sulla base di una strutturazione del dettato normativo in
forma alternativa, il soggetto passivo può versare in una situazione di assoluta vulnerabilità perché affidato alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza del reo. In
questi casi la forza di resistenza del soggetto passivo risulta ostacolata da particolari
condizioni personali e ambientali che facilitano l’azione criminale del colpevole e che
rendono effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, impedendo ogni forma
di capacità di reazione e difesa di quest’ultima. A chiusura, la norma incriminatrice
ricomprende anche l’ipotesi in cui il soggetto passivo del reato si trovi in condizioni di
minorata difesa. È un delitto tendenzialmente abituale, in quanto il fatto deve essere
commesso mediante più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel
tempo, ovvero dalla realizzazione di una sola condotta a cui consegue un trattamento
inumano e degradante per la dignità della persona. La giurisprudenza ha specificato che per
integrarsi il carattere dell’abitualità sono sufficienti due condotte, reiterate entro un breve
lasso temporale. Il carattere polimorfo del delitto di tortura ha portato la Cassazione anche
ad interpretare la locuzione “mediante più condotte” come una pluralità di contegni violenti
tenuti nel medesimo contesto cronologico. Il primo ed il secondo capoverso disciplinano la
tortura propria, in quanto soggetti attivi del reato sono i pubblici ufficiali o gli incaricati di
pubblico servizio i quali pongono in essere la condotta mediante abuso di potere, ovvero
violazione dei doveri inerenti alla funzione o al ser-vizio. Il Legislatore ha ritenuto di punire
più gravemente la tortura di Stato, perché ai summenzionati beni giuridici si aggiunge anche
l’esercizio illegale del potere o del ser-vizio pubblico. Al rappresentante dello Stato è stato
affidato un potere, che con il proprio agire tradisce il senso e sormonta i limiti per il quale al
predetto gli è stato conferito, ledendo nel suo significato più sostanziale il principio di
legalità, perno di qualsiasi ordinamento di diritto e la cui osservanza è, in primis, imposta gli
organi pubblici. La punibilità, tuttavia, è esclusa nel caso in cui le sofferenze siano risultate
unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. Ai commi 4 e
5 vengono regolamentate le ulteriori ipotesi di fattispecie “aggravate dall’evento”. Nel caso
in cui dalla violenza esercitata derivino lesioni gravi, l’aumento è di un terzo, se gravissime
è della metà. In caso di morte come conseguenza non voluta, la pena è la reclusione di anni
trenta; diversamente, omicidio volontario si applica la pena dell’ergastolo. L’elemento
psicologico richiesto è il dolo generico. La mancata recezione da parte del nostro
ordinamento della tripartizione in tortura “giudiziaria, punitiva e discriminatoria”,
disciplinata a livello internazionale (Convenzione ONU del 1984), esclude la
configurazione del dolo specifico. La giurisprudenza ammette la forma del dolo eventuale,
potendo le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico costituire eventi
semplicemente accettati e voluti dal soggetto attivo; e nella configurazione della forma
abituale, il dolo richiesto non è quello unitario, consistente nella rappresentanza e
deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la
coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole con-dotte. È evidente come l’appellativo,
ideato dalla dottrina e sposato dalla giurisprudenza, di “delitto a geometria variabile”, sia
confacente con la natura proteiforme del reato di tortura previsto nel nostro codice penale.
La struttura, così come prevista, è idonea a far fronte a più ipotesi criminali, al fine di
garantire una maggiore tutela. Significativa è la mancanza, per la configurazione della
suitas, della distinzione tra le varie forme di tortura, specificamente disciplinate in altri
ordinamenti.