di Enrico Barillaro
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)
L’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di
impugnazione, di recente introduzione, è disciplinata dal nuovo art. 344 bis c.p.p. . Un
istituto, evidentemente frutto di compromesso tra le forze politiche, che nasce al fine di
garantire il principio costituzionale della ragionevole du-rata del processo penale,
segnatamente, ridurre i tempi di celebrazione dei giudizi di impugnazione (appello e Cas-
sazione) e raggiungere uno degli obiettivi posti dal P.N.R.R. In realtà, sia concettualmente
che praticamente, tale isti-tuto è strettamente collegato a quello della prescrizione del reato,
così come innovato dalla legge 3/2019 , che prevede un blocco del suo decorso dopo la
sentenza di primo grado (o del decreto penale di condanna), per cui la prescrizione può
maturare solo ed esclusivamente nel primo grado di giudizio, rimanendo definitivamente so-
spesa nei gradi successivi. Infatti, l’improcedibilità nel giudizio di impugnazione, che viene,
appunto, definita “prescrizione processuale”, è pensata proprio per porre un rimedio, una
sorta di compensazione, e mira ad evitare le lungaggini dei giudizi di impugnazione che,
non avendo più quel pungolo rappresentato dalla scure della prescri-zione, vedrebbero
naturalmente dilatati a dismisura i tempi di definizione. Dunque, l’improcedibilità
dell’azione penale ex art. 344 bis c.p.p. nei giudizi di impugnazione prevede un mecca-
nismo estintivo correlato al superamento dei tempi di de-finizione del giudizio di gravame. I
limiti predeterminati di durata sono: per il grado di Appello due anni e per la Cassazione il
termine di un anno. Il superamento di tali termini senza che sia intervenuta la sentenza
comporta la declaratoria di estinzione del giudizio per improcedibilità dell’azione . Come si
può notare, in linea con i principi di ragionevole durata del processo penale, i segmenti tem-
porali coincidono con i limiti di tempo previsti dalla c.d. legge Pinto (n. 89/2001) per l’equa
riparazione da irra-gionevole durata. Le stesse disposizioni si applicano in caso di giudizio
di appello in seguito ad annullamento della sentenza con rinvio da parte della Corte di
Cassazione. Il dies a quo di decorrenza dei suddetti termini è indicato dall’art. 344 bis,
comma 3, cpp, nel 90° giorno dalla sca-denza del termine previsto dall’art. 544 c.p.p per la
reda-zione della sentenza di primo grado (comprendente even-tuali proroghe ai sensi
dell’art. 154 disp. Att. c.p.p.). I termini “ordinari “di durata massima dei giudizi di im-
pugnazione (due anni per l’Appello e un anno per la Cas-sazione) , superati i quali scatta la
declaratoria di impro-cedibilità, possono subire delle deroghe. Infatti, il comma 4 del citato
art. 344 bis c.p.p. prevede un articolato regi-me di proroga dei suddetti termini. Con
ordinanza motivata, ricorribile in Cassazione , il Giudice può disporre la proroga quando “il
giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o
delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da
trattare…” per un periodo non superiore ad un anno in appello e se mesi in cassazione. Tale
previsione riguarda genericamente qualsiasi reato. Mentre è prevista, poi, la possibilità di
ulteriori proroghe, sempre per il motivo del-la “complessità” del giudizio di impugnazione,
in rela-zione a delitti di particolare gravità che vengono tassativamente elencati sempre al comma 4 citato. In questo caso però, dalla lettura della norma, sembra che per i delitti
specificamente indicati le proroghe potrebbero es-sere illimitate. Ciò si deduce dalla
circostanza che al successivo capoverso viene specificato che (solo) quando si procede per
delitti aggravati ai sensi dell’art. 416 bis comma 1 c.p., i periodi di proroga non possono
superare complessivamente i tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel
giudizio di Cassazione. È previsto anche un regime transitorio per i giudizi pendenti in fase
di impugnazione, che rappresenta una sorta di proroga di fatto, in quanto i termini di cui al
1° e 2° comma dell’art. 344 bis c.p. decorrono dal 19 ottobre 2021, o se l’impugnazione è
proposta en-tro il 31 dicembre 2024 detti termini sono portati a tre anni per l’appello e un
anno e sei mesi per la Cassazione. Proprio il regime delle proroghe, nonché la disciplina di
quello transitorio, hanno fatto sorgere numerosi dubbi e criticità. L’istituto della
improcedibilità, infatti, ha previ-sto termini variabili in relazione alla tipologia di reato, ma
ha anche escluso l’applicazione ai delitti punibili con l’ergastolo. Consente proroghe
pressoché illimitate per reati considerati gravi, finendo per avallare un processo
praticamente infinito. Alla fine, la fase dell’impugnazione potrebbe durare cinque anni e più
(aggiungendosi ad al-trettanti anni del processo di primo grado), frustrando e ledendo il
principio costituzionale della ragionevole dura-ta del processo. La garanzia costituzionale
della durata ragionevole non può variare a seconda del tipo di imputa-to o della tipologia del
reato che a questi viene attribuito. Anche gli imputati dei delitti più gravi potrebbero essere
innocenti o comunque in-giustamente accusati o condannati in primo grado. Per non parlare
delle per-sone offese da tali reati che si vedrebbero convolti in giudizi interminabili. Il
regime delle proroghe, dunque, risulta difficilmen-te conciliabile con i precetti costituzionali
di cui agli artt. 3, 27 e 111 del-la Costituzione. La stessa esclusione dell’i-stituto in parola
per i delitti punibili con l’ergastolo desta più che una perplessità sot-to il profilo della
legittimità costituzionale. È stato obiettato, però, che anche la prescrizio-ne sostanziale non
opera per i reati punibili con l’ergastolo. Ma il parallelismo non può reggere atteso che vi
sono reati che non pos-sono cadere nell’oblio e “in rapporto ai quali si rende ne-cessaria una
rieducazione del colpevole”. Come abbiamo visto, a giustificare le eventuali proroghe vi è
“la complessità del procedimento” con le formule riferite al numero delle parti o alle
questioni giuridiche o di fatto inerenti. Il concetto della “complessità” del pro-cedimento è
abbastanza noto e previsto nel nostro ordi-namento ma, nell’istituto in parola, tuttavia, tale
previsio-ne è caratterizzata da assoluta genericità e vaghezza di criteri, per cui attribuisce al
giudicante una eccessiva di-screzionalità nel suo esercizio con tutti i limiti derivanti
dall’elevato tasso di indeterminatezza dei criteri di giudi-zio previsti dall’art. 344 bis,
comma 4, c.p.p.. Ciò avrà come conseguenza che, nella prassi, la proroga sarà quasi
automatica, sicuramente ogni qualvolta in cui, se non venisse disposta, si verificherebbe
l’effetto estintivo dell’improcedibilità. Automatismi delle proroghe anche per il timore dei
Giudici di possibili riflessi disciplinari per la mancata definizione del processo con sentenza
di merito, anche in relazione ai nuovi parametri valutativi sulla carriera introdotti dalla
riforma del C.S.M.. Altro effetto delle distorsioni del sistema saranno gli inevitabili ricorsi
che pioveranno in cassazione avverso le ordinanze di proroga. Insomma, è un istituto quello
dell’improcedibilità dell’azione per superamento dei termini di durata del giudizio di
impugnazione che una volta entrato a regime (ancora manca un anno esatto perché maturi il
termine in appello del periodo transitorio) sicuramente sarà oggetto di questioni e censure di
legittimità, anche costituzionale. Sempre che la discussa disciplina non venga prima
modificata dal legislatore.