di Luigi Rubino
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)
L’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 recante “Norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai docu-menti amministrativi” è stata
salutata, oramai più di trenta anni fa, con grande soddisfazione perché mancava nel nostro
ordinamento giuridico una disciplina generale va-lida per tutti i procedimenti amministrativi
(erano, invece, presenti normative specifiche e di settore in materia di procedimento
espropriativo, rilascio di concessioni edili-zie, procedimenti disciplinari nel pubblico
impiego). L’obiettivo della legge – consolidatosi nei successivi interventi di integrazione e
modifica – è stato quello di uni-formare l’azione della pubblica amministrazione ad alcuni
importanti principi di derivazione dottrinale e giurispru-denziale e creare, pertanto, le (pre-)
condizioni normative di efficientamento dell’operato della Pubblica Ammini-strazione, nel
quadro di una azione pubblica sempre più trasparente, partecipata e giusta. Ciò anche sulla
scorta di quanto statuito in sede di Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il cui
artico-lo 41 rubricato “Diritto ad una buona amministrazione” declina importanti
affermazioni di principi in materia di attività dei pubblici poteri. Particolarmente
significativi e degni di menzione risulta-no, al riguardo, le asserzioni sub art. 41, par. 2,
della Car-ta citata in ordine al diritto di ascolto, di accesso nonché in tema di obbligo di
motivazione incombente sulle PP.AA. E non c’è dubbio che la legge n. 241 del 1990 – ed in
ge-nerale le varie normative settoriali inerenti ai documenti e procedimenti amministrativi
che si sono succedute – abbia contribuito in modo determinante a rafforzare il rapporto di
fiducia tra cittadini e poteri pubblici, coniugando ga-ranzie ed efficienza nello svolgimento
dell’azione ammi-nistrativa. I principi giuridici costituzionalmente posti a base dell’a-zione
amministrativa (buon andamento, imparzialità, le-galità, di partecipazione democratica) e la
declinazione dei medesimi nei vari istituti giuridici contemplati nella normativa
contribuiscono, infatti, a rendere visibile e tra-sparente l’esercizio del potere amministrativo,
nel quadro di una azione pubblica tendente al buon andamento ed alla efficacia della sua
azione. Si pensi alla previsione del diritto di accesso ai documenti amministrativi,
all’obbligo di definizione espressa del procedimento, di motivazione dei provvedimenti
amministrativi, nonché alla previsione dei vari momenti di natura partecipativa in favore dei
soggetti destinatari/interessati/ contro-interessati dei provvedimenti emanandi. Tuttavia, a
distanza di tre decenni dall’ingresso nell’ordinamento della legge generale sul procedimento
amministrativo e dopo molteplici interventi normativi di integra-zione ed innovazione, può
essere utile porre alcuni inter-rogativi sulla effettiva declinazione dei principi e delle norme
in questione nella cultura dell’agire amministrativo dei pubblici poteri. Procediamo nella
disamina generale di alcuni istituti, onde estrarre spunti di riflessione. L’articolo 2 della
legge n. 241 del 1990 sancisce la certezza temporale dell’azione amministrativa attraverso la
previsione – quale regola generale – di definizione espressa dei procedimenti amministrativi
nel termine di trenta giorni. Il superamento di tale limite è ammesso solo se ritenuto
indispensabile “tenendo conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo
dell’organizzazione amministrativa, del-la natura degli interessi pubblici tutelati e della
particola-re complessità del procedimento” (comma 4, art. cit.). Orbene, sono soventi i casi
riscontrabili nella esperienza quotidiana di superamento ingiustificato di tale limite e di
elusione dell’obbligo di conclusione con provvedimento espresso (comma 1) e, quindi, di
violazione palese della norma in argomento. Così come sono, ancora, statisticamente
rilevanti i casi in cui vengono attivati da parte dei cittadini gli strumenti di tutela
giurisdizionale avverso il silenzio c.d. inadempimento della Pubblica Amministrazione (si
badi che in tale evenienza, la possibilità per il giudice amministrativo di conoscere e
pronunciarsi della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio è alquanto residuale e
limitata, ex art. 31, comma 3, c.p.a., ai casi di attività vincolate o di assenza di ulteriori
margini di discrezionalità). Il destinatario del provvedimento amministrativo (non adottato),
intanto leso nel suo diritto a vedersi erogata una prestazione pubblica conforme alle norme,
è costretto pertanto a rivolgersi al giudice ai fini della affermazione dell’obbligo di
provvedere in capo alla P.A. che, beninte-so, non costituisce la definizione del
procedimento e, quindi, dell’assetto degli interessi ivi sottesi ma solo, si ripete,
l’affermazione giudiziale di un obbligo di provve-dere in capo alla P.A. Né su tale tematica
è dato riscontrare nella prassi ammi-nistrativa un diffuso ed efficiente funzionamento dei
meccanismi di deterrenza e responsabilizzazione, pure previsti dalla medesima norma della
L. 241, da attivare in sede di valutazione della performance e di responsabilità disciplinare
ed amministrativo-contabile (comma 9) degli autori della omissione. Così come è
indubitabile che non si riscontri nel comune sapere dei cittadini/utenti – non di rado anche
nei riguardi degli esercenti la professione forense cui i medesimi si rivolgono per
domandare tutela – la potenzialità della previsione delle norme sul punto, atteso che già in
sede di articolo 2 della legge n. 241 sono contemplati importanti meccanismi di tutela pre-
giudiziale quali il potere sosti-tuivo da esercitarsi nei modi e nelle forme di cui ai com-mi 9
bis – 9 quin-quies, nonché la previsione dell’in-dennizzo da ritardo nella conclusione del
procedimento (art. 2 bis) il cui be-neficiario dovrebbe e s s e r e p r o p r i o l’utente leso,
indi-pendentemente dalla attivazione di un giudizio e per il solo fatto del ritardo. Per quanto
concerne il diritto di accesso, sin dalla sua genesi il medesimo è stato saldamente aggan-
ciato, sia dalla dot-trina che dalla giuri-sprudenza, al prin-cipio di buon anda-mento, al
principio di pubblicità dell’a-zione amministrati-va, al principio di credibilità dell’azio-ne
amministrativa e al principio di effi-cienza, inteso que-st’ultimo quale sin-tesi dei principi di
imparzialità e buon andamento. Trattasi del diritto di accesso c.d. documentale disciplina-to
dalle norme della legge n. 241/1990 e limitato a quelle informazioni riguardo alle quali
l’istante sia titolare di un interesse specifico e qualificato (“diretto, concreto e at-tuale”)
idoneo a “motivare” e suffragare la richiesta. Nella attuale formulazione del decreto
legislativo n. 33 del 2013 (artt. 5 e 5 bis) – così come novellato dal decreto legislativo n.
97/2016 – si ribalta tale impostazione nor-mativa e si riconosce al cittadino un vero e
proprio diritto alla richiesta di atti inerenti alle pubbliche amministra-zioni, a qualunque fine
e senza necessità di motivazioni. Trattasi di norme ispirate ai principi del Freedom of in-
formation act statunitense in cui la regola (e non la ecce-zione) è quella della possibilità di
totale disvelamento di ogni atto. Il passaggio dal bisogno di conoscere al diritto di cono-
scere rappresenta per il nostro ordinamento una straordi-naria e significativa rivoluzione,
potendosi richiamare al riguardo la (nota e davvero risalente) affermazione di F. TURATI,
“Dove un superiore pubblico interesse non im-ponga un momenta-neo segreto, la casa
dell’amministrazio-ne dovrebbe essere di vetro” (Atti del Parlamento italiano, Camera dei
deputati, sess. 1904-1908, 17 giugno 1908, p. 22962). Ciò posto sul piano del mero diritto
po-sitivo, siamo così sicuri che la Pubbli-ca Amministrazione italiana sia preparata e pronta
per una siffatta rivoluzione di prospettiva? Insistono le effettive condizioni a che le forme di
accesso in questione (ed in par-ticolare, l’accesso civico generalizzato che, di fatto, ha as-
sorbito quello sem-plice di cui al com-ma 1 dell’art. 5) rie-scano realmente ad assolvere alla
fun-zione di favorire forme diffuse di controllo sul perse-guimento delle funzioni
istituzionali e sull’utilizzo di ri-sorse pubbliche? Oppure, nel delicato e non sempre agevole
(tentativo) di bilanciamento della disclousure con il diritto alla riserva-tezza può continuare
ad annidarsi, per esempio, un’area di resistenza e ritrosìa da parte degli operatori pubblici ri-
spetto alle richieste di accesso? Ed i cittadini – utenti sono pienamente consapevoli della
portata del loro diritto ed anche del ruolo da essi stessi rivestito, non secondario nelle
democrazie moderne, di partecipi e controllori dell’operato dei pubblici poteri? La copiosa,
ancorchè qualificata, produzione giurispru-denziale sulla materia testimonia la esistenza di
un con-tenzioso rilevante che vede coinvolti i vari soggetti “atto-ri” del diritto di accesso
(P.A., richiedente, contro-interes-sato). Evidenza, questa, che accende i riflettori su una
disciplina ancora claudicante dell’istituto, sebbene caratterizzata da importanti ed innovative
affermazioni di principio. Sussiste, pertanto, un rapporto di proporzionalità inversa tra la
casistica portata all’attenzione del giudice amministrativo e la piana e fluida applicazione
delle norme sul diritto di accesso, laddove la consistenza del primo indi-catore può essere
mitigata solo dal pieno consolidarsi del-la cultura della disclousure, cui i pubblici poteri
conti-nuano, tuttavia, a guardare con diffidenza e resistenza.
Ancor più laddove l’istituto è dichiaratamente preordinato a garantire un controllo diffuso
dell’operato amministra-tivo da parte dei cittadini e, quindi, a rappresentare uno strumento
di prevenzione delle forme di corruzione. In materia di autocertificazione assistiamo ancora
oggi a richieste da parte di taluni uffici della pubblica ammini-strazione di produzione di
documenti, attestati, certificati, in palese violazione dell’articolo 18 della legge n. 241/1990
che, sin dalla sua prima stesura, sanciva l’obbli-go di acquisizione d’ufficio dei documenti
attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi già in possesso dell’ammi-nistrazione
procedente, ovvero detenuti, istituzionalmente, da altre pubbliche amministrazioni. La
norma, ispirata ad esigenze di semplificazione ammi-nistrativa, pur chiara e perentoria nella
sua formulazione, è oggetto di continua attenzione da parte del giudice am-ministrativo,
soprattutto nei procedimenti di concessione di finanziamenti e sovvenzioni pubbliche,
nonché di evi-denza pubblica in materia di appalti, segno (anche questo) di una patologia
nella sua applicazione e di un effetto di-storsivo nella sua concreta operatività a causa della
persi-stenza di un approccio culturale di alcuni presidi ammini-strativi ancora influenzato da
prassi e comportamenti ante legge 241/1990! L’istituto del c.d. soccorso istruttorio, anziché
essere atti-vato nella fase endoprocedimentale è, non di rado, ogget-to di sanzione in ordine
al suo mancato utilizzo in sede giudiziale, con la inevitabile e deprecabile conseguenza di
dispendio di risorse (economiche e di tempo) e con (r)assegnazione (anche in questi casi) di
un ruolo (anoma-lo) di regolatore dell’assetto di interessi al magistrato. Le brevi annotazioni
innanzi esposte costituiscono le premesse di altrettanto brevi considerazioni conclusive.
L’emersione del concetto di corruzione amministrativa in termini disfunzionali è utile e
strumentale all’esigenza di rafforzare la dimensione etica nell’azione pubblica e, per tale
via, il consolidamento della conoscenza delle norme sul procedimento amministrativo e la
concreta declina-zione operativa in sede di agire pubblico rappresentano un passaggio
obbligato. Se, oramai, costituisce pacifica acquisizione il valore fondamentale della
prevenzione quale meccanismo per contrastare il rischio di corruzione all’interno delle pub-
bliche amministrazioni, il corollario è rappresentato dalla opportunità/necessità sempre più
urgente di conformare le attività alle norme sul procedimento amministrativo – giuste ed
eque – utilizzando, secondo lo schema normati-vo materiale e vivente, gli istituti enucleati
nell’ambito del patrimonio normativo disciplinante il procedimento am-ministrativo. Una
distonia si rileva, tuttavia, nella attuale mancanza di un corpus organico di norme anche solo
di carattere rico-gnitivo delle norme sul procedimento amministrativo, delle norme sul
pubblico impiego, di quelle sulla docu-mentazione amministrativa e sulla digitalizzazione
dei procedimenti (solo per citare alcuni esempi), su cui sa-rebbe auspicabile un intervento
del legislatore. Gli operatori della Pubblica amministrazione, non di rado, si trovano infatti
costretti a planare su vari testi di-spositivi per affrontare problematiche quotidiane di lavo-
ro, con il precipitato di una trattazione poco organica e quasi sempre confusa, che determina
un output per il cit-tadino/ utente (e lo diremo con il linguaggio del legislato-re della “241”)
non sempre economico, efficace ed effi-ciente.