L’esame del testimone vulnerabile

di Alfredo Arcorace
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)

La testimonianza della persona offesa, nel nostro ordinamento, in omaggio al principio del
libero convincimento del giudice, può da sola fondare l’affermazione della responsabilità
dell’imputato, non essendo ed essa prevista l’applicazione delle regole di cui all’art. 192, co.
3 e 4 c.p.p. In genere il testimone è un soggetto estraneo al processo o comunque diverso dai
suoi attori principali. Se ne presume, quindi, la sua credibilità e, pertanto, il giudice di
merito, nella valutazione della prova testimoniale, deve partire dal presupposto che, fino a
prova contraria, il teste riferisce fatti veri o da lui ragionevolmente ritenuti tali. Pertanto, la
testimonianza potrà essere disattesa solo qualora emergano elementi che rendano plausibile
il mendacio. E, proprio, in virtù di ciò, sulla capacità a testimoniare della persona offesa si è
aperto un vivace dibattito che ha registrato anche l’inter-vento della Corte Costituzionale la
quale ha ritenuto ragionevole la scelta del legislatore di consentirne l’esame testimoniale in
quanto fondamentale per la ricerca della verità. Tuttavia, sebbene l’ordinamento consenta
l’esame testimoniale della persona offesa, essa non può essere parificata a quella del terzo
disinteressato, dovendosi tener conto del particolare interesse da cui essa è spinta, specie
quando sia costituita parte civile, e quindi portatrice di pretese economiche, ed in presenza
di un “teste vulnerabile” ossia della vittima di un grave reato contro la persona. In tal caso,
bene sanno gli operatori del diritto che l’attuale assetto normativo, in punto di valutazione
delle dichiarazioni della persona offesa, porta non pochi problemi pratici qualora il
testimone persona offesa sia un “testimone vulnerabile”. Tale problema diventa ancora più
pressante nei processi di tipo indiziario laddove le dichiarazioni della persona offesa
rappresentano la chiave di lettura del quadro indiziario a carico dell’imputato. In genere, nei
reati contro la persona la “vittima” è sempre un “teste vulnerabile” perché ha subito un
trauma in conseguenza del reato di cui è stato vittima sicché il suo esame può essere
condizionato da un ricordo impreciso o inquinato. Oscar Wilde ha definito la memoria come
“il diario che ognuno di noi porta con sé”, poiché i ricordi costituiscono la nostra identità
personale e contengono le nostre esperienze. La memoria umana, però, non funziona come
una videocassetta il cui nastro può essere riavvolto e rivisto, consentendo ad ogni visione di
rivivere gli eventi sempre nello stesso ordine e modo. Al contrario, i ricordi sono soggetti ad
una ricostruzione continua ogni qualvolta vengono richiamati sicché diversi elementi del-la
traccia mnemonica possono essere modificati, aggiunti o eliminati dopo ogni nuova
rievocazione. Questo accade perché la valenza personale che ognuno di noi attribuisce agli

eventi della propria vita influenzano la memoria ed il modo di percepire la realtà. La
memoria, in altri termini, non è una fotografia di eventi reali poiché in un ricordo non c’è
solo quella porzione di realtà che si registra al momento dell’esperienza, ma c’è anche la
rielaborazione che si sviluppa sulla base della nostra personalità. Inoltre, il contenuto della
memoria si modifica nel tempo fino a rendere impossibile distinguere realtà e finzione
poiché fattori esterni interferiscono con il suo stato di conserva-zione. Tutto ciò che
leggiamo, ogni frase che ascoltiamo viene filtrata dal nostro cervello ed altera il modo in cui
abbiamo registrato il passato. Richiamare un ricordo non significa leggere il contenuto
immagazzinato nella me-moria né riprodurlo così come è stato immagazzinato ma significa,
ogni volta, effettuare una ricostruzione dell’evento. In sostanza, non esiste un ricordo
perfettamente fedele poiché ogni qual volta viene recuperato un ricordo dalla memoria
avviene una vera e propria ricostruzione di eventi e situazioni. Numerose ricerche hanno
addirittura dimostrato che la sollecitazione di un atto di immaginazione può portare un
“testimone vulnerabile” a produrre anche falsi ricordi, credibili persino a chi li produce. I
falsi ricordi sono ricordi non realmente accaduti o immagazzinati in maniera distorta: alcuni
derivano dall’aggregazione di ricordi ad esperienze diverse; altri sono il frutto di ricordi
confusi ed incompleti che vengono arricchiti da informazioni esterne che inducono il
soggetto a ricordare un evento in maniera distorta; altri ricordi, non autentici, possono
essere totalmente inventati, possono derivare da altri ricordi reali parzialmente alterati o
essere frutto dell’aggregazione di frammenti di ricordi. Anche le informazioni provenienti
da fonti esterne possono alterare il ricordo, creando nella memoria una finzione che la
persona percepisce come un fatto realmente accaduto. Si pensi ad esempio al familiare della
vittima di omicidio che viene sentita a sit sui rapporti esistenti tra il congiunto ed il sospetto
omicida dopo avere letto sul giornale che quest’ultimo è stato iscritto nel registro degli
indagati. È indubbio che in questo caso il “teste vulnerabile” può subire un condizionamento
tale da alterare i suoi processi psichici creando dei “falsi ricordi” al punto confondere un
rapporto di indifferenza tra il congiunto ed il sospetto omicida con un rapporto di ostilità tra
i due. Altre volte, invece, la me-moria del “teste vulnerabile” può essere influenzata da
suggerimenti esterni (anche attraverso domande suggestive) al punto che questi inserirà
nella risposta una parte della domanda. Proprio per questo motivo la violazione delle regole
poste a presidio dell’esame testimoniale rende la prova acquisita non genuina e poco
attendibile anche quando le domande suggestive sono rivolte al testimone dal Giudice
perché anch’esso deve essere terzo ed imparziale in conformità del principio del
contraddittorio nella formazione della prova ex art. 111, co. 3 e 4 Cost. ad al principio del
giusto processo ex art. 6 CEDU. Non pochi problemi sono poi rappresentati
dall’identificazione del colpevole da parte del “teste vulnerabile” poiché in questo processo
entrano in gioco molteplici fattori quali la percezione, l’acuità visiva del testimone,
l’attenzione, l’influenza di conoscenze e convinzioni personali.
La capacità del sistema visivo di indentificare oggetti e di assegnargli un significato non è
sempre scontata, specie quando si tratta di identificare un volto in movimento. In questo
caso, il sistema visivo codifica prevalentemente ciò a cui il “teste vulnerabile” fa attenzione.
È quindi probabile che molti elementi presenti sulla scena del crimine non vengano fissati,
che non siano ricordati o che siano ricordati male poiché l’attenzione solitamente viene
diretta verso un oggetto preciso. Gli studi hanno ad esempio dimostrato che la presenza di
un’arma sulla scena del delitto cattura l’attenzione del testimone in modo automatico ed il
resto della scena viene immagazzinato in modo povero e quindi il testimone sarà in grado di
ricordare l’arma del delitto ma non chi la impugnava. Vi sono poi altre variabili che

influenzano i processi di identifica-zione; spesso la valutazione che il “testimone
vulnerabile” fa nel momento in cui viene chiamato a riconoscere un soggetto dipende dalle
aspettative che ha rispetto alla conclusione delle indagini. In particolare, se il “testimone
vulnerabile” è convinto che i ladri in Italia appartengono ad una certa etnia, più
probabilmente vedrà nella persona che commette un reato i tratti somatici di una persona
appartenente proprio a quell’etnia e naturalmente questi saranno i tratti che ricorderà. Anche
i pregiudizi possono interferire sulla percezione della memoria; ad esempio, sovente il
concetto di “extracomunitario” attiva in modo automatico nella memoria di un “testimone
vulnerabile” i concetti di rissoso, malvivente, inaffidabile. Quindi, se un anziano subisce un
borseggio nell’autobus in cui viaggiava anche un extracomunitario la conclusione cui sarà
indotto è che probabilmente il colpevole sarà lui. Ed allora, come può fondarsi il giudizio di
colpevolezza sull’esame di un “teste vulnerabile”? A parere di chi scrive, il giudizio di
colpevolezza dell’imputato non dovrebbe essere fondato soltanto sulla credibilità delle
dichiarazioni della persona offesa, ma occorrerebbe verificare prudentemente anche la sua
attendibilità a mezzo la ricerca di riscontri. In concreto, occorrerebbe verificare la
sussistenza di elementi di riscontro a quanto narrato ed occorrerebbe verificare l’assenza di
un interesse da parte della persona offesa ad in-colpare taluno di un reato o a vederlo
condannato. Nel nostro ordinamento, il principio di fondo che regola la valutazione della
prova orale è quello del libero convincimento del giudice a cui spetta valutare se un
testimone è credibile ed è attendibile secondo il suo “prudente apprezzamento”. Il giudice è
vincolato all’obbligo di motivazione della sentenza: deve cioè dare conto delle ragioni per le
quali ha preferito alcune risultante testimoniale rispetto ad altre ed i motivi per i quali le ha
ritenute più attendibili. Se ci sono più testimonianze tra loro contrastanti, il giudice dovrà
motivare adeguatamente per chiarire le ragioni in base alle quali, ad esempio, ha valutato
inattendibili quelle rese dai testimoni che sono risultati essere più vicini ad una delle parti in
causa rispetto a quelle di testimoni del tutto estranei alla vicenda. Libero convincimento non
significa, però, arbitrio pertanto sarebbe auspicabile che la valutazione delle dichiarazioni
del “teste vulnerabile” si ricorresse a riscontri esterni idonei a con-fermare la sua
attendibilità e ad un’attenta valutazione della sua credibilità. Ad esempio, in Gran Bretagna
che denuncia di avere subito un abuso sessuale deve mettere a disposizione degli inquirenti
lo smartphone per escludere a priori la sussistenza di messaggistica indicativa di con-senso
contrastante con la narrazione dei fatti denunciati. Tale norma non può suscitare scalpore se
si pensa che nel diritto romano nella valutazione della prova orale prevaleva il concetto
della “prudente diffidenza” per cui il giudice partiva dal presupposto che quanto riferito dal
testi-mone dovesse essere sottoposto ad una attenta verifica. Tale principio nel caso del
“teste vulnerabile” non può certo definirsi anacronistico posto che con il d.lgs n. 24/2014 è
stato introdotto nel nostro ordinamento il comma 5 ter all’art. 398 c.p.p. il quale prevede che
“il Giudice, su richiesta di parte, applica le disposi-zioni di cui all’art. 5bis quando fra le
persone interessate all’assunzione della prova vi siano maggiorenni in condizioni di
particolare vulnerabilità, desunta anche dal tipo di reato per cui si procede”. Con tale norma
sono state introdotte nell’ordinamento le basi della “prova dichiarativa del teste vulnerabile”
recependo le direttive comunitarie che partono dalla definizione di “vittima vulnerabile”
ovverosia di chi per le caratteristiche soggettive (minore o infermo di mente) o per il tipo di
reato di cui è stato vittima ha subito un trauma e rischia di essere indotta alla c.d.
“vittimizzazione secondaria” ovvero al patimento di un nuovo trauma indotto dal processo e
connesso alla riedizione del ricordo dell’abuso subito: condizione che può influire sulla
spontaneità e sulla genuinità della sua dichiarazione. La nozione di vulnerabilità oscilla

quindi tra la valorizzazione della tipologia del reato subito e l’attenzione per le sue
caratteristiche personali (la vittima può essere vulnerabile a prescindere dal delitto subito).
Questi temi hanno portato all’introduzione nell’ordinamento di norme a tutela dell’esame
del “testimone vulnerabile” sia nella fase dell’incidente probatorio sia nella fase del
dibattimento che mirano a garantire la genuinità e la spontaneità della prova dichiarativa.
Difatti, il nostro codice, recependo le spinte comunitarie, ha previsto che, nel corso delle
indagini e nella fase dell’udienza preliminare, ove si proceda per il reato di maltrattamenti,
per i delitti in materia di libertà sessuale, di sfruttamento della prostituzione minorile, di
stalking, di riduzione in schiavitù e tratta di persone, la testimonianza del minore o di
persona maggiorenne può essere assunta mediante incidente probatorio anche al di fuori
dell’ipotesi in cui la sua assunzione non possa essere rinviata al dibattimento. Ciò al fine di
evitare l’esperienza traumatica del dibatti-mento per cui l’audizione può svolgersi anche in
un contesto diverso dal Tribunale, avvalendosi di strutture e di personale specializzato ed
anche nell’abitazione della vittima. L’intento del legislatore è quello di proteggere la fonte
dichiarativa debole dal trauma di una usurante de-posizione dibattimentale. Tali interventi
segnano un passo in avanti verso la ristrutturazione del sistema processuale di raccolta della
prova dichiarativa del “testimone vulnerabile” valorizzando la funzione dell’anticipazione
del contradditorio per garantire la genuinità della prova dichiarativa che può essere
compromessa tutte le volte in cui il tempo trascorso tra la condotta criminosa e l’assunzione
della prova possa pregiudicare il ricordo del “teste vulnerabile” il quale potrebbe essere
influenzato da fattori idonei a condizionare il suo ricordo. Ancora una volta, in sostanza,
affiora il problema dei tempi del processo che tanto più si allungano, tanto più rendono
difficile l’accertamento della verità.