di Francesco Commisso
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)
Nel nostro sistema giuridico la difesa penale è obbligatoria. Anche nei casi di evidenza della
colpevolezza dell’indagato o qualora quest’ultimo abbia confessato crimini efferati (si pensi
ad una violenza sessuale su minore), l’avvocato non può esimer-si dal difensore il proprio
assistito. Alcune vicende giudiziarie, per la loro efferatezza, hanno interessato
particolarmente l’opinione pubblica e sono diventati veri e propri “casi mediatici”. In questo
modo accanto al processo, celebrato nelle aule di giustizia, se ne celebra uno parallelo nei
salotti televisivi, o sui social media, dove a finire nella gogna mediatica non ci sono soltanto
gli indagati ma anche gli avvocati che li assistono. Quando un avvocato viene diffamato per
il solo fatto di avere assunto la difesa di soggetti indagati di crimini efferati, che suscita-no
una grave disapprovazione sociale, viene lesa l’immagine ed il decoro dell’Ordine
Professionale di appartenenza o dall’Associazione di categoria cui è iscritto. A tali
organismi, per poter assumere in maniera adeguata la tutela dei propri iscritti, va pertanto
riconosciuta la legittimazione attiva a proporre “querela” nei confronti dell’autore della
diffamazione patita dal singolo avvocato. Di tale avviso è anche la giurisprudenza di
legittimità che di recente ha riconosciuto l’esistenza dell’“onore collettivo”, inteso quale
bene morale di coloro che fanno parte di un’“associazione”. Seguendo tale orientamento
giurisprudenziale andrebbe quindi riconosciuta, a giudizio di chi scrive, anche all’Ordine
Professionale (COA) o alle associazioni di categoria (Camera Penale, ad esempio) il diritto
di proporre denuncia-querela contro la diffamazione subita dal proprio iscritto quando tale
“offesa” sia idonea a ledere il prestigio dell’intera categoria. Così, ad esempio, se nello
scritto offensivo viene fatto riferimento all’intera categoria forense come colpevole di
assumere la difesa di soggetti indagati per reati socialmente odiosi, con una inammissibile
equiparazione del professionista al proprio assistito, in tal caso l’offesa non è rivolta solo
all’avvocato esposto al pubblico ludibrio ma all’intera categoria. È pur vero che il nostro
ordinamento riconosce il diritto di critica come esimente del reato di diffamazione ma essa
opera soltanto qualora venga rispettato il c.d. criterio della continenza, ossia quando la
forma espositiva sia corretta e non scada in una forma gratuita ed immotivata di aggressione
dell’altrui reputazione.
In linea teorica non esistono limiti alla libertà di manifestazione del pensiero ma
sicuramente esula dal diritto di critica l’accostamento della persona offesa a cose o concetti
ritenuti ripugnanti, osceni, o disgustosi, considerata la centralità che i diritti della persona
hanno nell’ordinamento costituzionale. Pertanto, i commenti diffamatori nei confronti di un
difensore, a causa dell’incarico professionale rivestito, possono finire per arrecare
pregiudizio all’intera categoria quando il commentatore, partendo dal caso concreto,
esprime giudizi negativi, generici ed immotivati “sugli avvocati” che accettano la difesa di
coloro che sono indagati per reati insidiosi. In tali casi, estendere il diritto di proporre
“querela” all’associazione di categoria cui il professionista è iscritto significherebbe
rafforzare la tutela dell’avvocatura tutta perché solo una categoria forte e ben rappresentata
può garantire la corretta tutela dei diritti inviolabili della collettività.