Verità e deontologia forense negli studi televisivi

di Giuseppe Oppedisano
(Estratto da “L’Eco Giuridico del Centro Studi Zaleuco Locri – 28.10.2022)


La presenza degli avvocati nei salotti televisivi e nei social network ha fatto riemergere, in
chiave moderna, la tematica deontologica del rapporto dell’avvocato con i mezzi
d’informazione. Si tratta di una tematica che assume particolare rilievo in considerazione
del dilagante diffondersi della spettacolarizzazione della professione forense. Capita
sovente, infatti, che talune vicende giudiziarie assumono un forte risalto mediatico, si pensi
ai casi di femminicidio, per cui la partecipazione dell’avvocato a trasmissioni televisive che
si occupano di cronaca giudiziaria, o la partecipazione a dibattiti sui social media, diventa
l’occasione per raccontare una “versione dei fatti” ma anche per “vendere la notizia” ed
alimentare sia il mercato dei media sia per dare all’avvocato un risalto mediatico. Questione,
quest’ultima, che apre un’altra importante tematica deontologica: quella della pubblicità
dell’avvocato. In questo contesto, la domanda che sovente lo spettatore si pone è quanto “le
notizie” filtrate dai media corrispondono a “verità” e quanto invece siano frutto della
“spettacolarizzazione” della vicenda giudiziaria per suscitare l’attenzione e l’interesse
dell’opinione pubblica. Sotto il profilo deontologico, invece, la domanda che gli operatori
del diritto si pongono è quanto l’avvocato, che spesso è anche difensore di una delle parti
coinvolte nella vicenda giudiziaria, possa esporsi dal punto di vista mediatico riferendo
l’esito delle indagini, criticando le modalità di conduzione delle investigazioni, anticipando
le scelte difensive del proprio assistito o, ancora, riportando semplicemente opinioni
personali. Hannah Arendt ha affermato che “i fatti informano le opinioni e le opinioni,
ispirate da differenti interessi e passioni, posso-no differire molto e rimanere legittime fino a
quando rispettano le verità di fatto”, e successivamente Walter Lipmann, precursore della
teoria della “filosofia come educazione del pensiero”, ribadiva che “le opinioni vere
possono prevalere solo se i fatti a cui si riferiscono sono conosciuti; altrimenti, le false idee

saranno efficaci quanto quelle vere… coloro che perdono la presa sui fatti rilevanti di ciò che
li circonda sono inevitabili vittime dell’agitazione e della propaganda. Il ciarlatano, il
mistificatore, il sovranista e il terrorista possono prosperare solo lì dove il pubblico è stato
privato dell’accesso indipendente alle informazioni. Laddove tutte le notizie sono di
seconda mano e tutte le testimonianze sono incerte, gli uomini cessano di rispondere alle
verità e reagiscono semplicemente alle opinioni”.
La filosofia anticipa i tempi ed il pensiero di Arendt e Lipman può dirsi più che mai attuale
poiché la “verità” è posta sempre più in secondo piano rispetto all’esigenza di
spettacolarizzare la notizia. L’opinione pubblica si chiede quindi sempre più qual è il ruolo
dell’avvocato nel “mercato dell’informazione”, o meglio della “disinformazione”. A
giudizio di chi scrive l’avvocato che partecipa ai dibattiti pubblici non deve essere
fagocitato dal tentativo di esposizioni vanitose ma deve limitarsi ad una esposizione serena
dei fatti tutelando la parte che assiste da una eccessiva “esposizione mediatica” che ne possa
danneggiare la difesa con la diffusione di notizie che pur di alimentare l’interesse
dell’opinione pubblica possano creare nocumento alla sua difesa. Nel diritto romano
l’avvocato aveva l’obbligo etico di difendere in modo giusto, poiché una cosa è essere
giusti, un’altra è agire con giustizia. Nel 469 d.C. una costituzione degli imperatori Leone e
Antemio accostava addirittura l’attività difensiva degli avvocati a quella dei soldati poiché
l’esercito con le armi e gli avvocati con l’eloquenza difendono la vita e la libertà di chi è
ingiustamente aggredito. Nel tredicesimo secolo, per la prima volta, in Francia, è stato
imposto agli avvocati il giuramento solenne che si sarebbero presi carico solo cause giuste e
che avrebbero subito abbandonato quelle che avessero scoperto essere malvagie. In questo
modo lo Stato, per la prima volta nella storia, introduceva un codice di comportamento per
gli avvocati ispirato all’obbligo della “verità”; obbligo previsto anche dall’art. 50 del nostro
codice deontologico. Così, durante la partecipazione ad eventi pubblici, dibattiti convegni,
trasmissioni televisive o nella partecipazione ai dibattiti sui social network, l’avvocato non
può sostenere tesi contraddittorie o palese-mente inverosimili.
Le informazioni che l’avvocato diffonde devono essere trasparenti, veritiere, corrette, non
equivoche, non ingannevoli, non denigratorie, non sugge-stive e non comparative. Inoltre,
nei rapporti con la stampa l’avvocato dev’essere equilibrato e misurato e deve sempre
rispettare i doveri di segretezza e riservatezza. L’avvocato deve prima di tutto tutelare e
difendere al meglio gli interessi del proprio assistito e non deve diffonde-re informazioni
che possono nuocere alla sua difesa. Sempre più spesso, però, il bilanciamento tra il
riguardo alle norme etiche ed il diritto di difesa della parte assistita viene alterato quando
qualche attore del processo “mediatico” manifesta inclinazione verso le luci dei riflettori. La
notorietà, ricercata attraverso comparsate televisive e sollecitazioni di servizi sui mass
media, viene percepita, an-che nel contesto forense, come occasione professionale. Nessuna
norma vieta all’avvocato di non apparire in tele-visione o non rilasciare interviste, ma
nell’epoca della spettacolarizzazione della giustizia alcune condotte sembrano travalicare il
rispetto dei principi deontologici.
Di recente ha fatto scalpore la notizia dell’irrogazione della sanzione disciplinare della
sospensione dell’esercizio della professione forense ad un avvocato che ha rilasciato
interviste relative al contenuto dei processi patrocinati come difensore, era comparso in
trasmissioni televisive con sembianze alterate, interpretando ruoli in processi inventati,
aveva ingaggiato un’attrice chiedendole di interpretare in tv il ruolo di naufraga di una nave,
da lui assistita con successo, aveva proposto giudizi di classe chiaramente infondati, dopo
averne magnificato sui giornali il sicuro positivo risultato, conseguendone la condanna alle

spese di lite per i suoi assistiti e, in relazione agli stessi giudizi, aveva indicato come
recapito telefonico, quello dello studio di altri avvocati, i quali erano stati bersagliati da
innumerevoli telefonate, il tutto all’evidente fine di procurarsi nuovi clienti. Scalpore ha poi
suscitato la vicenda del difensore di una delle imputate coinvolte nel delitto di Avetrana per
il quale fu aperto un procedimento disciplinare dall’Ordine degli avvocati di Taranto,
infastidito dalle loro continue apparizioni in televisione e sui giornali e dalla «troppa
disinvoltura» nel cercare un cliente che garantisce maggiore visibilità. Il sospetto del
Consiglio dell’Ordine era che fossero stati superati i limiti dei doveri deontologici sia in
relazione all’inchiesta sia per l’atteggiamento troppo aggressivo tenuto durante le
trasmissioni televisive. Ai tempi del delitto di Avetrana, in un’intervista al quotidiano La
Stampa, il professor Natale Fusaro, docente di criminologia all’Università La Sapienza,
avvocato penalista ed esperto di questioni di deontologia, fece notare che «è vietato
qualsiasi comportamento, elogio della propria persona e capacità professionale che dia un
vantaggio a scapito degli altri. L’avvocato – conclude-va Fusaro – dovrebbe limitarsi a
rendere informazioni sulla linea difensiva cercando di evidenziare quali siano le ragioni del
proprio assistito». Il tutto, mantenendo «equilibrio e misura nel rilasciare interviste nel
rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza». A giudizio di chi scrive le osservazioni del
Prof. Fusaro sono corrette perché l’avvocato nei rapporti con gli organi di informazione, ed
in ogni attività di comunicazione, non deve fornire notizie coperte dal segreto di indagine,
spendere il nome dei propri clienti e assistiti, enfatizzare le proprie capacità professionali,
sollecitare articoli o interviste, né convocare conferenze stampa se non strettamente
necessarie per la difesa del proprio assistito. Nell’attuale momento storico pieno di sfide e di
responsabilità, la consapevolezza del ruolo dell’avvocato passa anche attraverso il rispetto
dei principi di “verità” e “segretezza” imposti dal nostro codice deontologico, strumento
necessario per rilanciare la credibilità della professione. Chiaramente, nella cronaca
giudiziaria è auspicabile che vi sia una maggiore responsabilità anche da parte dei cronisti
perché se da un lato la nostra Costituzione tutela la libertà di espressione del pensiero,
dall’altro è inderogabile il dovere di rispettare, nell’esercizio della funzione informativa, i
diritti di dignità, onorabilità e riservatezza delle persone.
Pertanto, l’informazione sulle vicende giudiziarie deve sempre rispettare i diritti inviolabili
della persona, rendere chiara la distinzione tra cronaca e commento, fra indagato, imputato e
condannato, fra accusa e difesa, ed adottare modalità espositive che consentano una
adeguata comprensione. Tutto ciò è necessario per evitare il rischio di un sovrapporsi della
televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei
processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi. In definitiva, a giudizio di chi
scrive, deve evitarsi qualsiasi forma di spettacolarizzazione nella ricostruzione delle vicende
giudiziarie per evitare che si crei una sorta di “foro mediatico” alternativo alla sede naturale
del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi,
ma si assiste ad una sorta di rappresentazione paraprocessuale che giunge a volte perfino
all’esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, così da pervenire, con le forme
proprie della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico sulla
fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria” (Autorità Garante per le
Comunicazione, delibera 13/2008).
Deve evitarsi, insomma, che i media si sovrappongano alla funzione della giustizia ed allora
è compito dell’avvocato, invitato nei salotti televisivi o coinvolto nelle discussioni
pubbliche sui social media, impedire che le rappresentazioni suggestive, dettate dalla logica
del mercato, possano prevalere sull’obiettiva e comprovata informazione per evitare il

“rischio di precostituire presso l’opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto,
basato su una verità virtuale che può influire, se non prevalere, sulla verità processuale”
(delib. cit.), con il rischio della degenerazione del dibattito pubblico in una sorta di gogna
mediatica a scapito della presunzione di non colpevolezza dell’imputato, principio cardine
del nostro ordinamento e di cui ogni avvocato dev’essere geloso custode.